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Approfondimenti

27/10/2017

“Così potremo diagnosticare in anticipo malattie degenerative e mentali grazie al connettoma”

Rossini, neuroscienziato giurato del premio “Lombardia è ricerca”: “Sulla ricerca di fondi Italia troppo debole a Bruxelles. Rizzolatti? Capace di creare squadra”

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Redazione Open Innovation

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Regione Lombardia

Apparecchi in grado di prevedere il comportamento umano, diagnosi precoci di Alzheimer e altre malattie neurologiche degenerative, prima che compaiano. Il futuro per le neuroscienze è già qui, e passa dallo studio del “connettoma”. Lo spiega il professor Paolo Maria Rossini, neurologo, membro della giuria di 14 top scientists italiani chiamati da Regione Lombardia per selezionare il vincitore del nuovo premio internazionale “Lombardia è ricerca”. Direttore della Neurologia della Fondazione Policlinico Gemelli di Roma e docente all’Università Cattolica, Rossini elogia il “segnale culturale” lanciato dalla Lombardia con questo premio, che verrà consegnato l’8 novembre al Teatro alla Scala di Milano (www.openinnovation.regione.lombardia.it/premio). E soprattutto il vincitore, Giacomo Rizzolatti, “una figura che all’estero ci invidiano, capace anche di creare una buona squadra intorno a sé”.

Professore, come si posiziona il nostro paese nel settore delle neuroscienze?

“Si può dire che in questo campo l’Italia sia molto forte, sia a livello di clinica che di ricerca applicata. E che lo sia in modo quasi miracoloso, se si considera il progressivo e continuo calo di fondi per la ricerca ma anche la mancata “scalata” alle istituzioni europee a Bruxelles che altri Paesi hanno portato avanti, mentre i governi italiani sono in generale rimasti a guardare. È un fatto che non riconosciamo ancora a sufficienza l’importanza che possono avere i fondi europei per la ricerca, e che recuperiamo solo una piccola parte della nostra quota di contributi all’Unione Europea. Non a causa del livello della nostra ricerca, ma solo per lo scarsissimo coordinamento politico dei nostri rappresentanti a livello UE. Ho partecipato a varie iniziative europee e devo dire che ho sempre trovato, in modo sistematico, livelli diversissimi di preparazione e di strategie nazionali sui dossier scientifici tra i nostri funzionari e quelli di Olanda, UK, Spagna o Belgio. Se non si interviene su questo gap, non credo che la ricerca italiana potrà fare più molta strada”.

Quali sono gli altri ostacoli che vede, più in generale, sul cammino della ricerca italiana?

“Un altro nodo non sciolto mi pare quello delle imprese italiane che investono solo briciole in Ricerca & Sviluppo, per poi magari finire a comprare brevetti depositati grazie nostri ricercatori ormai all’estero: brevetti pagati molto più di quello che sarebbero costati se realizzati in Italia. Diverse aziende dicono di mettere fondi su Ricerca & Sviluppo ma si tratta solo di una via per recuperare fondi ministeriali riservati a questa voce. E ancora, arriva pochissimo anche dalle Fondazioni private, che in altri Paesi invece investono in ricerca quasi la metà di quanto arriva dal pubblico. Tornando poi alla quota che versiamo all’Europa per la ricerca scientifica, osservo anche che molto raramente gli italiani vengono coinvolti nella stesura dei bandi UE con i quali poi si distribuiscono i fondi. E che quando lo sono, non hanno però il mandato politico di indicare con chiarezza le priorità per l’Italia, né la capacità di trovare alleati tra gli altri Paesi sui temi che potrebbero essere di maggiore interesse per noi. Sono debolezze alle quali si dovrebbe porre rimedio: per questo abbiamo bisogno di professionisti della politica dedicata alla ricerca, sia nei ministeri di competenza sia tra i nostri rappresentanti presso la Ue. Purtroppo sono pochi, ma assistiamo anche a un ricambio eccessivo perché quei pochi vengono magari cambiati quando cambia il ministro”.

Però il livello è buono?

“Sì, i ricercatori ci sono e sono bravi, pubblicano bene e in alcuni casi benissimo, i giovani hanno una preparazione di base riconosciuta, tanto è vero che quando vanno a lavorare in centri di ricerca estera diventano per noi dei formidabili concorrenti: sono tanti i progetti di ricerca vinti da team capitanati da italiani espatriati molti anni fa. Anche questa è una carenza grandissima per il nostro sistema, perché formare un ricercatore bravo oggi costa circa 500 mila euro e quando però questi diventa maturo ce lo lasciamo soffiare, mentre basterebbe assicurargli uno stipendio che ci ripagherebbe facilmente dell’investimento fatto. La nostra situazione è poi a macchia di leopardo, e certo ci sono eccezioni lodevoli come quella della Lombardia”.

Molti si augurano che altre Regioni seguano l’esempio del nuovo premio “Lombardia è ricerca”, che ne pensa?

“È un altro segnale culturale intelligente lanciato dalla Lombardia, perché dà visibilità al territorio, crea un movimento virtuoso e collegamenti internazionali. Difficile però dire se debba fare scuola. Certo, in assenza di una strategia nazionale ben venga l’iniziativa dei singoli territori, ma occorre fare attenzione a non scivolare in una competizione interna al Paese tra chi fa più e chi fa meno, sarebbe stupida e controproducente. Il sistema incentrato sulle Regioni poi ha creato anche dei doppioni nella ricerca, con la proliferazione di enti inutili. Detto questo, finché manca un piano di controllo nazionale ben vengano le iniziative locali, e allora la Lombardia sta lanciando iniziative che andrebbero in qualche modo riprese e approfondite. Ad esempio attraverso collegamenti reali tra il mondo della ricerca e quello delle imprese e del lavoro, collegamenti che solo la vera politica può garantire: non possono farlo i ricercatori dai loro laboratori, deve essere il sistema a dare indirizzi e fondi. In assenza dei quali ognuno va per la propria strada. Anche creare solo uno spin off universitario non è affatto semplice, richiede una serie di passaggi burocratici che sfiancano un gruppo di giovani con una buona idea e un professore che voglia dare loro una mano, mettendoci anche risorse proprie. C’è una mentalità da cambiare completamente, una visione della ricerca in università come di qualcosa del tutto avulso dalle applicazioni pratiche e di autoreferenziale”.

La necessità di una maggiore apertura interessa anche le neuroscienze?

“Assolutamente sì. Noi ad esempio avremmo bisogno di rendere obbligatoria la multidisciplinarietà dei nostri studi, arruolando ingegneri, fisici, informatici, chimici… L’idea di una ricerca che non metta in contatto discipline diverse è superata, ci dobbiamo contaminare o come dicono in Europa cross-fertilizzare, confrontarci con altre comunità scientifiche. È su questo nuovo fronte che vengono messe le risorse in altri Paesi, dove ci sono veri dottorati e vere scuole di perfezionamento che noi abbiamo in pochissime università, perché rappresentano un vivaio non solo di giovani ricercatori ma di intere équipe che poi maturano e producono. Una mente come Rizzolatti, per fare un esempio, all’estero l’avrebbero dotata di un museo tutto per sé, il suo è un nome che tutti ci invidiano, arrivato a un passo dal Nobel già due volte. Il premio attribuitogli da Regione Lombardia è un riconoscimento più che giusto, abbiamo bisogno di scienziati che sappiano entusiasmare e creare seguito intorno a sé. Ricercatori che come Rizzolatti abbiano avuto il merito di creare una bella squadra di studiosi: la sua squadra ha continuato a pubblicare in giro per l’Italia e per il mondo. Lo stesso Rizzolatti peraltro è erede di una scuola prestigiosa, quella dell’istituto di Fisiologia di Pisa diretto dal professor Giuseppe Moruzzi, che ha prodotto moltissimo: è bastato investire sulla persona giusta 80 anni fa e ancora ne stiamo raccogliendo i frutti”.

Dunque lei ha scelto la strada dello spin off? Con quali obiettivi?

“Sì, sono sei mesi che sto cercando di metterlo in piedi, fossimo stati in California forse sarebbero bastati sei giorni. Poi certo bisogna vedere se l’idea è buona, ma di fatto altrove c’è un sistema pronto ad accoglierla, c’è anzi la fila di piccole imprese a caccia di buone idee da sviluppare per trasformarle in prodotti sul mercato. In questo caso, la nostra idea è creare una macchina che, analizzando i segnali cerebrali a partire da un banale elettroencefalogramma, sia in grado di prevedere come lavorerà il cervello nei successivi due-tre secondi. Una macchina in grado di dire, posto che un soggetto sta eseguendo un compito di un certo tipo, se questo soggetto lo svolgerà bene, così così o se farà dei gravi errori. Si tratta di un meccanismo che può avere applicazioni gigantesche, in situazioni in cui è fondamentale prevenire l’errore umano”.

Su cosa si baserebbe il funzionamento di questo apparecchio?

“Quando lavorano bene, le reti neurali hanno una certa configurazione, quando non è così ne hanno un’altra. Se una macchina fotografa on line le reti neurali, può verificare in tempo reale se le configurazioni sono corrette e dunque se il comportamento del soggetto sarà adeguato nei secondi successivi. Andando oltre, gli stessi elettrodi applicati per registrare l’attività cerebrale emettono dei piccoli campi elettromagnetici che mantengono stabili nel tempo le reti neuronali, e dunque mantenendole stabilmente nelle loro configurazioni ‘buone’, impendendo che si intromettano configurazioni meno performanti. Questo può interessare lo studente che studia, piuttosto che il controllore di volo. In generale, una macchina del genere può servire a ottimizzare le performances, con un training impostato sulle configurazioni neuronali ottimali per svolgere bene un compito: il potenziale di sviluppo è enorme. Si tratterebbe insomma di identificare queste configurazioni ottimali e di renderle stabili. Ci sono tutte le basi ormai per sviluppare un apparecchio del genere, tanto è vero che c’è anche una competizione a livello mondiale per crearlo”.

Quali altre applicazioni vede per il futuro delle neuroscienze?

“Dopo che per anni si è parlato di genoma, credo che il tema dei prossimi venti sarà il ‘connettoma’. Per connettoma si intende una mappa delle connessioni tra le varie centraline del cervello mentre il soggetto compie una determinata azione. Queste connessioni sono ultradinamiche, cambiano di secondo in secondo se non in frazioni di secondo, perché abbiamo miliardi di cellule che possono collegarsi/scollegarsi in modo diverso attimo per attimo e ogni tipo di collegamento favorisce un certo tipo di attività del cervello. Il collegamento può essere buono o cattivo: quando si formano reti ‘aberranti’ diventano la base di molte malattie neurologiche e anche psichiatriche. In quest’ultimo caso, ad esempio, una risonanza fotografa una struttura del cervello apparentemente sana, che però non funziona proprio perché si sono formati collegamenti ‘sbagliati’, che veicolano messaggi errati. In collaborazione con il ministero della Salute abbiamo già raccolto dati che dimostrano come certe connessioni di chi ancora non ha sviluppato l’Alzheimer siano comunque già alterate, come insomma l’architettura cerebrale sia già compromessa anche se poi il cervello continua a funzionare perché riesce a riorganizzarsi con reti ‘di riserva’. Studiare il connettoma significa dunque poter arrivare a diagnosi precocissime delle malattie degenerative, addirittura pre sintomatiche. Lo stesso si può fare – potenzialmente - anche per patologie come schizofrenia, disturbo ossessivo compulsivo, autismo, la cui base non è strutturale – non ci sono danni cerebrali – ma appunto dovuta a connessioni errate. Ciò sta portando a intervenire attraverso farmaci o meglio attraverso la stimolazione di tipo elettromagnetico, per creare un collegamento corretto tra le reti. Questa è la frontiera più affascinante da esplorare”.

Qual è infine a suo giudizio il grado di fiducia dell’opinione pubblica nella scienza oggi, dopo anni di pubblicità a pseudo terapie e campagne no vax?

“Io vedo un‘opinione pubblica comunque interessata ai temi e alle frontiere della ricerca, basti pensare al seguito di programmi come Quark e Superquark. Naturalmente bisogna dare informazioni corrette, le fonti devono essere controllate, e la politica deve spiegare che oggi con le chiacchiere non si va da nessuna parte, ci sono delle regole internazionali da seguire per definire se un farmaco o una procedura funzionano o meno: non c’è nessun parere da chiedere alla gente. Inutile perdere tempo su Stamina se il suo proponente non ha pubblicato un singolo articolo sulla letteratura scientifica internazionale di riferimento. Se è così, non dovrebbe avere nemmeno avere lo spazio per fare una proposta come quella di Stamina. Così dovrebbe agire la politica”.

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