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    Nicola Piepoli: “L’Italia, la crisi da Covid-19 e il ruolo dell’Europa”

    Intervista al sondaggista e saggista: focus su Smart-Working, turismo, e-learning

    di Redazione Open Innovation | 22/04/2020

Sondaggista, saggista, imprenditore, professore associato di Statistica all’Università di Padova, pioniere delle ricerche sulla creatività: è una lunga carriera quella di Nicola Piepoli, fondatore nel 1965 dell’Istituto di Ricerche di Mercato CIRM, nel 1970 dell’IPSOA - insieme ad alcuni docenti dell’Università Bocconi -, quindi nel 2003 dell’Istituto Piepoli di cui è Amministratore delegato.

Abituato a scandagliare il sentiment della società italiana, in questa intervista Piepoli guarda alla fase 2 dell’emergenza aperta dal Covid-19. Riflettendo su misure economiche, Smart Working, e-learning e sostegni alle famiglie.

Professore, in Europa si è consumato un braccio di ferro sulle misure per mitigare l’impatto del Covid-19, concluso puntando sul MES: che ne pensa?

“Direi meglio poco che nulla. Il problema però non sta solo nelle cifre, ma nell’atteggiamento dell’Europa. San Paolo diceva: “La lettera uccide, lo spirito vivifica”. Venendo alla situazione dell’Italia, tra i Paesi più colpiti dagli effetti del Coronavirus: il problema è che se l’Europa non percepisce la gravità di quello che ci aspetta, quasi un dopoguerra, non può reagire. E conta anche con che spirito si muova: abbiamo bisogno di leader che non ci impongano qualcosa ma capaci di guidare il nostro spirito, non di un’Europa che ci dica ‘alzatevi e combattete’, ma piuttosto ‘alziamoci e combattiamo’: questo è lo spirito di cui la leadership europea dovrebbe dare prova. È in grado di farlo?”.

 

“C’è un settore già in sofferenza ed è il turismo, che valeva finora fino al 12% del PIL. Occorre trovare soluzioni subito, per alimentare il turismo interno”

 

Se l’Europa non fa abbastanza, quali possibilità ha l’Italia per gestire la crisi incombente?

“Il nostro faro può essere uno solo: se si prospetta una certa perdita di PIL, poniamo del 10%, quello che dobbiamo fare è recuperarla entro l’anno. Come? Certo non bastano incentivi, occorre una rivoluzione finanziaria: il governo dovrebbe creare una sorta di moneta alternativa, grazie a una simil banca che distribuisca non bond ma titoli diversi, garantiti dallo Stato alle aziende private che li accettano.

In questo modo si creerebbe PIL senza legarlo al debito pubblico, perché si tratta di un giro di debiti e crediti interno, tra un gruppo di clienti finali privati e aziende statali riunite in un ente specifico, di tipo privatistico, di cui lo Stato sarebbe amministratore delegato.

La storia ci dice che è già successo. Negli anni Trenta in Germania, grazie alla creazione di un sistema monetario non convenzionale il PIL è cresciuto del 150% in sette anni e Keynes nel ’41 notava che se il sistema è guidato da un demonio e votato al male non significa che non possa essere indirizzato al bene. Ancora più rivoluzionario era stato il Presidente Lincoln, che per coprire i debiti di guerra aveva letteralmente creato una nuova moneta emettendo 500 milioni di dollari, i cosiddetti verdoni, da affiancare a quelli emessi dai governi locali.

Il sistema insomma si può adattare, e comunque non vedo alternative: per il nostro Paese è questione di vita o di morte. Noi come Istituto di ricerca stiamo ragionando insieme ad alcuni leader su quali potrebbero essere le idee operative da mettere in atto a supporto della ripresa economica”.

Quindi l’Italia dovrebbe agire da sola?

“Dalla crisi post Covid-19 possiamo rialzarci a patto di avere miliardi di crediti gratuiti. Che non possono arrivare dall’Europa: non ha un potere simile a quello di Lincoln e soprattutto non ha la forza morale necessaria, quella che c’era all’epoca di De Gasperi e all’epoca della sua stessa creazione, perché l’Europa è nata da questa forza morale.

Occorrono allora azioni temerarie, abbiamo davanti tempi complessi, ma preoccuparsi non serve: quello che occorre è agire, e subito. L’Italia può farcela, se organizza una moneta interna a uso interno. Ma solo il Presidente della Repubblica può avere la forza per un’iniziativa del genere, istituendo un gruppo di lavoro ad hoc”.

 

“Lo Smart Working dovrebbe coinvolgere in futuro almeno il 30% dei lavoratori. E dovremmo porci di più il problema delle esigenze di chi ha figli a carico, in un Paese in cui la natalità è bassissima”

 

Su quali settori intervenire anzitutto?

“La crisi colpirà tutti, ma c’è un comparto sicuramente già in grande difficoltà ovvero il turismo. È chiaro che la nuova tendenza sarà lo sviluppo di un turismo interno. Questo non potrà comunque compensare il calo degli arrivi esteri in un Paese come il nostro, meta turistica mondiale in cui le entrate del settore rappresentavano finora il 12% del PIL (contando anche l’impatto indiretto e indotto), dunque qualcosa come 250 miliardi: il buco che si prospetta è immenso. Anche qui, occorre agire subito. Si potrebbe ad esempio pensare di riempire gli alberghi con anziani o pazienti cronici ora accolti negli ospizi, con una spesa a carico del SSN; oppure i ragazzi delle scolaresche, riuniti per una settimana di vacanza. O ancora con i dipendenti pubblici, accolti sempre a spese dello Stato. In ogni caso, anche qui l’imperativo è: trovare soluzioni”.

Ci attendono grandi cambiamenti, alcuni sono già in corso con milioni di italiani ‘convertiti’ allo Smart Working: un’evoluzione destinata a rimanere?

 “Il lavoro agile dovrebbe essere la nostra normalità e coinvolgere non il 5% ma almeno il 30% dei lavoratori, per i quali potrebbe favorire moltissimo la conciliazione con i carichi familiari. E non parlo solo di donne: fior fiore di uomini soffrono a lavorare in ufficio per ragioni legate alla famiglia. Se dessimo loro l’opportunità di lavorare da casa anche dopo il picco dell’emergenza sanitaria, credo che la loro produttività sarebbe maggiore. Perché i risultati dipendono dalla motivazione, non dal luogo in cui si svolge la propria attività: e se sempre più lavoratori con figli, o genitori a carico, avranno la possibilità di lavorare da casa potranno concentrarsi sul lavoro, senza le preoccupazioni rappresentate in ufficio dalla necessità di gestire a distanza i propri cari. Non dico che lo Smart Working debba essere esteso a tutti, alcune tipologie di lavoro non lo permettono e c’è chi invece lavora meglio in ufficio. Quello che conta è chiedersi: quale forma di lavoro risolve al meglio i problemi spirituali delle persone? E, certo, dovremmo porci di più il problema delle esigenze di chi ha figli a carico, in un Paese in cui la natalità è bassissima”.

 

“Il rischio all’orizzonte è quello di una disgregazione e di una grande rabbia sociale, Dobbiamo essere consapevoli del tipo di sviluppo su cui vogliamo puntare, se sulla via solidaristica o quella individualistica”

 

L’emergenza rischia di farci trascurare alcuni nodi irrisolti, come appunto quello della natalità in crisi?

“Ci sono alcuni fatti. Da noi il tasso di fecondità femminile è fermo a 1.3, contro il 2.2 della Francia. Una differenza che parte da lontano, da quando De Gaulle impose leggi per favorire la natalità con sostegni dalla nascita alla maggiore età poi riprese dai suoi successori. Questo deve essere anche il nostro approccio: si vedrà poi quali servizi erogare, ma occorre entrare nell’ottica di un sostegno a lungo termine alle famiglie con figli. Il legislatore italiano finora non ha fatto nulla. Eppure è l’unico modo per cominciare a invertire il calo costante delle nascite: i nuovi nati erano 439 mila nel 2018 contro i 458 mila del 2017, il minimo storico dall’Unità d’Italia. Non dimentichiamo che il Presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo, ha previsto che, di questo passo, il decennio si chiuderà per l’Italia con solo 400 mila nuovi nati. Dati che innescano una spirale negativa, perché si traducono anche un numero inferiore, in futuro, di donne in età fertile. Occorre intervenire subito, gli effetti positivi si vedono dopo decenni. Fino ad allora, rimane un altro fatto: siamo una società multietnica e avremo un futuro solo come società multietnica. In cifre: senza gli immigrati a fine secolo l’Italia con questo tasso di fecondità non conterà più di 30 milioni di abitanti”.

A proposito di nuove generazioni, stiamo sperimentando la scuola 2.0: l’esperienza dell’e-learning potrebbe prolungarsi?

“Sono andato a scuola tutti i giorni, durante la guerra, quando suonava l’allarme scendevamo nel rifugio e lì non c’erano normali lezioni ma leggevamo libri: è stato comunque un momento formativo e di crescita. E lo è stato perché ero in compagnia di altri ragazzi. Personalmente, oggi, non credo che il web e la didattica a distanza possano sostituire l’esperienza formativa rappresentata dallo stare insieme, dal poter osservare l’esempio dato delle azioni dei docenti. Questo non significa che l’emergenza Covid-19 non possa aprire la strada a modalità diverse di organizzazione della scuola, ad esempio a orari diversi: ma deve essere garantito il senso di comunità e l’apprendimento delle regole sociali che ‘fanno’ la scuola”.

Più in generale, che tendenze vede affermarsi all’orizzonte nella società italiana?

“Davanti a noi abbiamo un bivio, rappresentato da due diverse vie. Quella che potremmo definire orientale o meglio ‘confuciana’ - non parlo della Cina, ma di una filosofia che ricorda quella socratica -, in cui si attua una collaborazione a tutti i livelli per costruire un futuro di felicità e benessere, e in cui tutti partecipano alla costruzione di questi obiettivi sotto una guida etica e politica insieme. E poi abbiamo la via occidentale, in cui siamo immersi, quella di un capitalismo individualista oggi facilmente identificabile con la linea del Presidente USA Donald Trump, in cui si negano fatti - l’epidemia, ad esempio - per affermare un’idea. Se questa è la strada che percorreremo anche in Italia, il rischio all’orizzonte è quello di una disgregazione e di una grande rabbia sociale, aggravata dalla crisi economica ormai alle porte. Una rabbia ancora embrionale, ma comunque presente”.

C’è anche il dato, positivo, di una rinnovata fiducia nella scienza?

“Certo, non dimentichiamoci però che riguarda il presente e l’emergenza sanitaria, in cui in primo piano ci sono contagi, vittime e ricerca di una cura. Cosa succederà quando entreremo nel pieno della crisi, se non sapremo reagire al drastico calo del PIL e ci troveremo con 1,5 - 2 milioni di disoccupati? Dobbiamo essere consapevoli del tipo di sviluppo su cui vogliamo puntare e di quale via sceglieremo: se quella solidaristica o quella individualistica. Questo farà la differenza”.

 

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