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    Premio “Lombardia è ricerca”: “Così i Big Data possono aiutare l’invecchiamento attivo”

    Intervista al giurato Calzolari, fisico e ingegnere informatico alla Normale di Pisa

    di Redazione Open Innovation | 12/04/2019

Dalla laurea in fisica al dottorato in ingegneria informatica, dalle aule dell’università al mondo aziendale per poi approdare in un centro di eccellenza come la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove è responsabile del comparto ICT.

Questo il percorso di Federico Calzolari, ferrarese ma pisano d’adozione, per la terza volta tra i giurati del Premio internazionale “Lombardia è ricerca” di Regione Lombardia, che anche quest’anno verrà consegnato l’8 novembre al Teatro alla Scala.

Una carriera, la sua, impreziosita anche dalla partecipazione al team internazionale del CMS, uno dei due esperimenti del CERN (insieme ad ATLAS) che nel 2012 hanno portato alla scoperta del Bosone di Higgs. Ovvero alla scoperta che l’anno successivo è valsa l’attribuzione del premio Nobel ai fisici Higgs ed Englert, per aver teorizzato nel 1964 l’esistenza della particella di cui appunto gli esperimenti del CERN hanno fornito la dimostrazione.

“Se un giovane è bravo è giusto poterlo chiamare in via diretta. Se la persona assunta produce, l’ateneo otterrà più fondi l’anno successivo, gli strumenti di valutazione ci sono”

La ritroviamo ancora una volta nella classifica dei top scientists italiani: come valuta lo stato di salute della ricerca scientifica?

“Senza essere troppo critici, rimaniamo purtroppo poco competitivi a causa di quattro problemi che gravano sul mondo della ricerca: ovvero il “meccanismo” di selezione, la discontinuità negli ingressi che porta ad assunzioni di massa e successive chiusure per anni, stipendi troppo bassi e precariato. Sanare almeno alcune di queste ‘ferite’ porterebbe un enorme valore aggiunto alla nostra ricerca, tenendo conto del fatto che già oggi gli scienziati italiani sono di altissimo livello e i nostri studenti universitari sono richiestissimi. Questo dipende anche dal fatto che la formazione scientifica nei nostri atenei è ancora di tipo generalista, ovvero ad ampio spettro, e non calata subito nelle attività produttive: e privilegiare la ricerca di base mette a mio avviso i nostri laureati un passo avanti, nonostante l’età media più alta rispetto a quelli di altri Paesi.

Tornando ai nodi da sciogliere per far progredire la ricerca italiana, faccio mio un suggerimento che vedo sempre più diffuso: quando si aprono delle posizioni da ricercatore in ambito scientifico le chiamate possono e anzi devono essere ad personam. Voglio dire che se un giovane è bravo è giusto poterlo chiamare in via diretta e che non ci si può ‘nascondere’ dietro i concorsi, sarebbe un’ipocrisia. Questi infatti presentano comunque della criticità e una mancanza di trasparenza, come è noto, anche a causa del meccanismo attuale di formazione delle commissioni.

Meglio sarebbe allora permettere alle università di prendersi la responsabilità di selezioni dirette, certo sottoposte a un controllo successivo. Come del resto già succede all’estero, dove se la persona assunta produce, l’ateneo otterrà più fondi l’anno successivo, mentre se i risultati non sono soddisfacenti al contrario i fondi verranno tagliati. Gli strumenti di valutazione per le performance dei ricercatori arruolati del resto ci sono, a cominciare dall’ANVUR (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, ndr)”.

Lei è alla sua terza presenza nella giuria del Premio. Cosa si aspetta dall’edizione 2019 con il suo focus sull’Healthy Ageing?

“Registro una novità per me importante, rispetto ad esempio all’edizione centrata sulla Precision Medicine. In quel caso, il tema stesso rimandava a candidature di progetti portati avanti magari da team medici o da strutture sanitarie. Quest’anno invece il focus sull’invecchiamento attivo permette, a mio avviso, di proporre la candidatura non solo di medici ma anche di esperti del settore informatico. Sono loro infatti a poter individuare sistemi validi di analisi dei dati provenienti da sensori biometrici, che rappresentano uno dei nuovi filoni di ricerca in ambito sanitario.

I dati sanitari che generiamo infatti sono ormai moltissimi, anche quando non ce ne rendiamo conto, basti pensare a quelli registrati dallo smartphone che ci portiamo addosso: alcuni telefoni cellulari ormai sono anche in grado di farci un elettrocardiogramma”.

Spazio dunque ai Big Data?

“E alle competenze di Big Data Analytics. In ambito sportivo e soprattutto per il calcio ci sono ormai molte startup e progetti finanziati per la lettura di dati biometrici (oltre che di riprese tv e dei numero di azioni fatte), progetti in grado di elaborare previsioni sullo stato di salute degli atleti.

Così come ci sono, e qui torno al tema del Premio, moltissimi sistemi di predizione delle condizioni di salute degli anziani: già dieci anni fa qui a Pisa in ateneo era attivo un progetto con sistemi di rilevazione da polso dei parametri vitali, oggi con gli smartwach e i vari wearables si possono raccogliere ancora più informazioni.

Sarebbe interessante allora che tra le ricerche che verranno candidate al Premio ci fossero anche lavori attenti a questo nuovo ambito di ricerca. Per leggere questi dati si ricorre ormai a sistemi di intelligenza artificiali basati su reti neurali, non supervisionati. Si tratta di una branca dell’informatica ancora ai primordi ma estremamente promettente: parliamo peraltro di sistemi concepiti già negli anni 60, all’epoca però non si avevano ancora a disposizione strumenti con una potenza di calcolo sufficiente a far funzionare gli algoritmi elaborati”.

 

 

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