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    L'epidemiologo La Vecchia: “Coronavirus in Italia, la priorità ora sono i controlli”

    L’esperto della Statale: in Lombardia oggi possiamo gestire un’epidemia moderata

    di Redazione Open Innovation | 21/02/2020

Carlo La Vecchia si occupa di epidemiologia e cioè della distribuzione geografica e nel tempo delle principali patologie in Italia già dagli anni ’80. Ordinario di Statistica medica ed Epidemiologia al Dipartimento di Scienze Cliniche e Mediche dell’Università degli Studi di Milano, temporary advisor all’Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra, La Vecchia è uno dei 15 giurati del Premio “Lombardia è ricerca” di Regione Lombardia.

Professore, il coronavirus è arrivato in Italia, in Lombardia, il primo cluster non lontano da Milano: era prevedibile?

“È molto probabile che arrivasse in Italia, considerando il mondo aperto in cui viviamo e che Milano è la città più connessa a livello internazionale. Il punto essenziale oggi è guadagnare tempo, per acquisire conoscenze su diagnosi, prognosi, evoluzione del virus”.

Siamo attrezzati a gestire una situazione inedita anche in Europa? In Francia e Germania i casi di contagio sono partiti da un paziente zero, che qui invece non possiamo ancora individuare con certezza…

“Avere un paziente zero può essere un vantaggio ma non è una garanzia: individuare una catena di propagazione dell’infezione non significa che non se ne possa diramare un’altra. Certo, un cluster come quello evidenziato finora rappresenta una situazione più complessa di quelle verificatesi finora in Europa. Per quel che riguarda le strutture, grazie alla presenza dell’Ospedale Sacco e di altre strutture dedicate alle Malattie Infettive abbiamo la possibilità di gestire un’epidemia moderata, in caso contrario dovremo organizzarci”.

Cioè di che numeri stiamo parlando?

“Di qualche centinaio di contagiati. Se invece arrivassimo a migliaia avremmo bisogno di attrezzare altre strutture, che non potrebbero uguagliare quelle esistenti, ma che potrebbero garantire dei livelli di sicurezza accettabili in altri reparti di medicina. Occorrerebbero ad esempio materiali di protezione per il personale sanitario e inoltre di strumenti assistenza respiratoria per i pazienti con grave polmonite, o renale per quelli con insufficienza renale da coronavirus”.

Solo pochi giorni fa l’OMS ha sottolineato che l’80% degli affetti ha sintomi lievi, il dato sembra incoraggiante: è così?

“In realtà i pazienti con sintomi lievi possano essere ancora di più, perché molti casi particolarmente in Cina sfuggono alle registrazioni. Se consideriamo la globalità delle persone infette probabilmente i sintomi lievi sono presenti in oltre il 90% dei casi: l’80% si deve riferire cioè a coloro che si sono rivolti alle strutture sanitarie. Comunque, non c’è dubbio: la maggior parte delle persone infette presenta sintomi da lievi a moderati”.

D’altro canto, colpisce che il numero di morti provocato oggi dai casi di Covid 19 sia superiore a quelle causate insieme da MERS e SARS, ceppi che pure avevano un tasso di letalità bene maggiore: come leggere questo dato?

“Stiamo parlando di un virus nuovo, rispetto al quale nessuno di noi ha immunità. Se dunque i soggetti che lo hanno contratto non stanno molto male, ma proprio perché presentano sintomi lievi vanno a lavorare o viaggiano, è chiaro che il numero di persone che arrivano a infettare sarà molto maggiore di quanto sia stato per SARS o MERS. Nel caso di SARS e MERS, infatti, la gravità delle patologie impediva agli ammalati di sportarsi e dunque di veicolare ancora l’infezione”.

Veniamo alle misure prese finora, in Cina e nel resto del mondo: anche alla luce del primo caso italiano, quanto si sono dimostrate efficaci?

“Le misure di isolamento messe in atto finora in Cina a Wuhan e nello Hubei sono state adottate per ritardare il più possibile la diffusione del virus, in modo da avere il tempo intanto di costruire le strutture sanitarie necessarie, di procurarsi materiale medico e testare possibili farmaci. E sono misure assolutamente necessarie. Difficile però valutare l’iniziativa degli altri Paesi, fermo restando che l’esigenza primaria era isolare il virus lì dove è apparso.

Venendo all’Italia, ho trovato poco razionale e anzi inspiegabile il provvedimento di blocco di tutti i voli dalla Cina. Altre nazioni come la Francia si sono orientate piuttosto alla creazione di uno o più hub aerei, dove far arrivare tutti i voli provenienti dalla Cina per poter effettuare lì i controlli del caso. Per l’Italia, in quest’ipotesi, la scelta più logica in questo senso sarebbe stata quella di Milano.       

Aver respinto i voli invece ha fatto sì che gli aerei in arrivo dalla Cina atterrino in Paesi vicini al nostro, da cui poi chi è sbarcato raggiunge in treno l’Italia. E questo ci costringe a fare affidamento sui controlli messi in campo da altre nazioni. In ogni caso, il primo cluster in Italia indica la necessità di identificare e istituire la quarantena per tutti coloro che provengono dalla Cina”.                                                                     

Il virus era già sbarcato in Africa, continente forse impreparato a gestire una simile emergenza: quanto dobbiamo temerne la diffusione lì?

“Non più che in India o in larga parte dell’Indocina direi, ma c’è un fatto. Nei Paesi ad alto reddito forse ci possono anche essere dei casi non segnalati perché asintomatici, ma i casi gravi e i decessi da coronavirus sono accuratamente conteggiati. In Paesi come quelli dell’Africa, invece, se il virus si diffondesse potremmo avere sia un problema di gestione, per mancanza di infrastrutture, sia uno di aggiornamento sui numeri reali dei casi e dei decessi”.

Il contagio in Italia arriva quando le autorità segnalano una flessione dei casi in Cina…

“C’è stato un cambiamento nel criterio delle diagnosi. Inizialmente erano effettuate con la sierologia, una volta esauriti i materiali necessari si è passati alle semplici radiografie al polmone. Questo ha fatto registrare molti casi pregressi, e una volta esauriti quelli il conteggio limitato ai nuovi casi ha portato a un calo delle segnalazioni. Non è quindi possibile fare previsioni sull’andamento dell’epidemia sulla base del numero di segnalazioni giornaliere in Hubei”.

Il Chinese Clinical Trial Registry ha annunciato l’avvio di una sperimentazione clinica con clorochina, un antimalarico: su quali farmaci puntare?

“Se ne stanno testando vari ma credo che i più efficaci possano essere gli antivirali, nello specifico antinfluenzali come l’Oseltamivir, o altri antivirali come il Remedesevir (l’unico attivo in vitro) o i farmaci anti-proteasi utilizzati per l’HIV. Sui farmaci non abbiamo tuttavia ancora dati sufficienti per una valutazione”.

 

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