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    “Da Mathesia a Goliath, ecco come si porta una start up al successo”

    di Redazione Open Innovation | 13/10/2017

Dal piano di rilancio con nuovo brand lanciato nel 2014 al successo di Mathesia, start up che ha già raccolto 700 mila euro con una piattaforma che fa incontrare le esigenze e i problemi delle aziende con le soluzioni innovative fornite da matematici a livello di modellistica, simulazione e data intelligence. Stefano Mainetti può ben dire di aver raggiunto diversi traguardi come CEO di PoliHub, l’incubatore e acceleratore del Politecnico di Milano gestito dalla Fondazione Politecnico di Milano, ormai ai vertici delle classifiche mondiali. Mainetti ci illustra successi, difficoltà e sfide per PoliHub e per il Paese: l’accordo con il più grande incubatore del mondo, ma anche il gap sul trasferimento tecnologico in Italia e la mancanza di una cultura di sistema, il sostegno di Regione Lombardia, i fraintendimenti creati dal mito della start up digitale, il percorso di spin off come Spinga, da da cui è nato il progetto Goliath, già a quota 650 mila dollari raccolti su Kickstarter.

Professore, il 2016 si è chiuso per PoliHub con 26 spin off del Politecnico, 100 start up incubate e 1000 idee raccolte in più. Le novità del 2017?

“Abbiamo potenziato due aree, quella dell’internazionalizzazione e quella del trasferimento tecnologico. Sul primo fronte, oltre ad avviare collaborazione con UK e Usa abbiamo siglato un accordo con il più importante incubatore cinese, TUS Star, collegato alla prestigiosa università Tsinghua University con la quale il Politecnico ha cominciato a collaborare per un corso di laurea comune. Ora c’è una partnership anche tra i due incubatori, con call che chiamiamo ChinItaly, per dare la possibilità a start up italiane di esplorare le potenzialità del mercato cinese e viceversa. Nel 2017 si sono tenute già due edizioni di collaborazione, delle accelerazioni, alcune start up italiane sono state premiate e hanno fatto dei road show in Cina. Per dare un’idea delle dimensioni di quello che è il più grande incubatore al mondo, finanziato da un fondo governativo, parliamo di 80 Science park disseminati nel Paese per un totale di 5 mila start up incubate con un fatturato aggregato di 16 miliardi di dollari: alcune realtà le ha portate fino alla quotazione alle borse di Hong Kong, di Shangai o al Nasdaq. Numeri, e finanziamenti, che a oggi sembrano impensabili in Italia.

L’altro importante e più recente investimento è stato il potenziamento dell’area del trasferimento tecnologico grazie a Switch2Product, la call per progetti da selezionare per trasformarli in prodotti avviata con studenti e docente del Politecnico. Il rettore del Politecnico Ferruccio Resta ha deciso di sostenerci con un premio di 150 mila euro, mentre i numeri sono lievitati molto visto che abbiamo registrato una crescita delle idee del 134% e oltre 300 candidature: 150 sono state valutate come più mature, tra queste 70 avevano già una proprietà intellettuale protetta o proteggibile e dunque sono invenzioni, alla fine ne abbiamo selezionate 20 per essere incubate con un percorso che va dai quattro mesi a un anno”.

Che tipo di lavoro le aspetta?

“Si tratta di costruire un team, di fare un prototipo da realizzare con i fondi e nei 300 laboratori del Politecnico, e via via che ci sono risultati di venire presentati ai fondi Venture Capital per dei round di finanziamenti. Insomma il tipico percorso di uno spin off accademico, come quello seguito da Mathesia”.

Il terreno per le start up sembra fertile anche in Italia, ma quante arrivano poi a misurarsi effettivamente sul mercato, oltre cioè il livello comunque buono del brevetto?

“C’è in effetti un gap tra questi due momenti. Abbiamo una buona tradizione nel valorizzare la proprietà intellettuale, il Politecnico ha quella più solida e vanta il maggior numero di brevetti in Italia. Il buco vero si trova tra questa fase e il successo vero sul mercato. In mezzo ci sono passaggi indispensabili, anzitutto trovare il dominio di business più promettente per l’idea brevettata. Un esempio: alla S2P di quest’anno sono arrivati dei ricercatori chimici con il brevetto di un dispositivo piccolo ed economico per misurare il calcare presente nell’acqua. Pensavano di utilizzarlo negli acquedotti ma sarebbe stato un business limitato, li abbiamo invece messi in contatto con i responsabili dell’innovazione di aziende produttrici di elettrodomestici e il riscontro è stato immediato, erano più che interessate a un simile sensore perché per loro il calcare rappresenta un problema vero. Si tratta quindi di saper valorizzare il potenziale commerciale dell’idea: tutta un’altra cosa dal semplice brevetto. Occorrono però risorse, perché i Venture Capital non finanziano idee che non abbiano ancora un progetto di dominio di business, d’altra parte i responsabili innovazioni delle aziende non si muovono se non sono direttamente interessate.

Quello che manca oggi in Italia è proprio il sostegno a questo tratto del percorso ovvero al trasferimento tecnologico, dall’idea all’area di business. Ed è proprio su questo gap che come dicevo il Politecnico ha deciso di investire con delle risorse per il S2P. Mentre sul fronte degli atenei lombardi abbiamo il sostegno di Regione Lombardia, sotto forma dei premi per Start Cup, la competizione tra tutti gli incubatori e le università lombarde coordinata tra l’altra proprio da Polimi: un sostegno che ci fa veramente felici, perché permette di supportare tutti gli atenei del territorio. A livello di sistema Paese però è chiaro che su questo gap dovrebbe intervenire lo Stato, nella fase di semina senza la quale non può esserci raccolto”.

Ci sono segnali in controtendenza?

“Fortunatamente European Investment Found e Cassa depositi e prestiti hanno deciso di finanziare il Fondo ITATech con 200 milioni per coprire proprio l’area del trasferimento tecnologico, dunque la mano pubblica si è in parte attivata. Purtroppo però quelli sul trasferimento tecnologico sono investimenti che non possono avere ritorno se non a lungo termine, e con un’elevata percentuale di rischio iniziale, finanziario tecnologico e imprenditoriale. Dunque occorrono fondi che sappiano accettare rendimenti diversi da quelli della finanza aggressiva e un ritorno che c’è ma che è di sistema, in pratica fondi pubblici. Si tratta di una scelta politica: altre nazioni lo hanno capito da tempo, addirittura a mettere soldi sono i fondi pensione perché sanno che così si creano più opportunità di business e dunque più posti di lavoro, il che significa che verranno pagati più contributi e gestite più pensioni. Questo è il ragionamento fatto da chi ha una cultura di sistema, se invece ragioni come Asset allocator guardi solo all’alto rischio e allo scarso rendimento”.

Quali sono i rischi di questa mancanza di ‘cultura di sistema’?

“Per noi incubatori ‘coprire’ questa fase comunque iniziale del percorso è vitale, soprattutto per chi come Polihub tratta idee high tech ovvero ad alto rischio tecnologico. Per tornare all’esempio del nostro S2P, ci troviamo di fronte a una sorta di imbuto nella selezione. Se avessimo risorse anche per le altre 50 idee giudicate promettenti non andremmo a disperdere quella che è la materia prima del futuro della nazione ovvero le invenzioni. Il nostro conto economico a oggi però non ce lo permette. Il Rettore Resta ha voluto comunque assicurare di non voler perdere queste 50 invenzioni non ancora abbastanza mature per poter partire, invitandole a ripresentarsi alla call perché anche a queste verrà dato seguito. Più in generale, rilevo che il mito della Silicon Valley e una certa comunicazione dei media hanno portato a privilegiare una cultura delle start up digitali, che però corre il rischio di banalizzare questo percorso: quattro studenti eccellenti possono anche sviluppare un software eccellente in un garage, così come azzeccare il dominio di business per una app. I passaggi necessari allo sviluppo di materiali innovativi sono molto più complessi, vedi il nuovo tipo di tungsteno che se riscaldato non lascia aloni e non si macchia e che dunque può essere usato per il rivestimento delle cucine: gli esperimenti per testarlo sono stati condotti in laboratori del Polimi, con un bombardamento di particelle e a temperature controllate, non si poteva certo provarci in un garage”.

Possibile che nella Milano culla della finanza e dell’innovazione qualcuno non creda di più in progetti simili?

“Anzitutto, abbiamo prima dovuto dimostrare di essere capaci di fare la nostra parte, posizionarci nei ranking internazionali: ora che siamo secondi in Europa e quinti nel mondo nel benchmark Ubi cominciano a essere più credibili. Altro nodo, dobbiamo essere in grado di mostrare casi di successo, i VC prima di rischiare vogliono vedere qual è il potenziale. Adesso però con il successo di S2P una serie di imprenditori vogliono unirsi al nostro distretto portando qui le proprie aree di ricerca e sviluppo, si tratta di aziende che magari hanno sviluppato prodotti e fatto innovazione nei laboratori del Politecnico. Dunque molto si sta muovendo, ma abbiamo dovuto prima metterci in gioco in prima persona. E che siamo in anticipo sugli obiettivi fissati dal piano di rilancio del PoliHub, partito nel 2014. Certo, far tornare i conti in un incubatore universitario non è banale: devi sostenere gli inventori e dunque non puoi chiedere loro denaro, devi però anche trasferire valore con l’altissimo rischio di cui dicevo. Noi ci riusciamo grazie a collaborazioni di open innovation con le imprese e sostenendo le start up nel found raising, come abbiamo fatto con Mathesia, spin off accademico nato nel nostro incubatore da un altro spin off, Moxoff”.

Come si arriva ad esempio ai 700 mila euro raccolti da Mathesia?

“Per creare le condizioni adatte occorre costruire un network di relazioni e occasioni di internazionalizzazione. Per raggiungere questo round allora abbiamo lavorato più di un anno, nel 2016 eravamo vicini a chiudere ma abbiamo dovuto arricchire il club degli investitori. La nostra forza sta nell’avere accordi con tutti i fondi Vc italiani, poi è fondamentale presentare la start up al momento giusto - perché se l’idea non è matura e riceve un ‘no’ i fondi si parlano e la bocciatura rimane, se invece chiedi i fondi troppo tardi rischi che la start up muoia sul nascere – e al Vc giusto, a seconda delle diverse sensibilità. Bisogna poi centrare la formula più adatta: club deal, investitori privati, Vc, crowfounding. L’ultimo esempio di questo tipo arriva da una delle nostre start up incubate, Springa, spin off del Politecnico. Springa sviluppa Goliath CNC, un progetto nato dalla tesi di laurea di uno studente di Design & Engineering (che ha poi coinvolto altri due laureati al Politecnico, in Design del prodotto e Ingegneria Meccanica), centrata su un robot mobile per la lavorazione del legno, dopo quattro giorni su Kickstarter (la più grande piattaforma al mondo per la raccolta fondi su progetti creativi) Goliath ha già raccolto 650 mila dollari. Un risultato frutto di un anno di assistenza, in cui abbiamo consigliato loro di puntare su un prototipo funzionante e su un road show internazionale: hanno girato Europa Usa e raggiunto anche la Cina raccogliendo consensi e assicurando che quest’anno il prodotto sarebbe stato su Kickstarter. Così ora, con ancora 36 giorni di permanenza in vista sulla piattaforma, siamo convinti di poter anche raggiungere il traguardo di un milione di dollari”.

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