Di seguito alcuni chiarimenti e riferimenti per capire meglio di cosa si parla quando si dice cirucular economy e come possiamo avvicinarci a questo modello di business del futuro.
“A circular economy seeks to rebuild capital, whether this is financial, manufactured, human, social or natural. This ensures enhanced flows of goods and services” Fondazione Ellen MacArthur
Con l’espressione economia circolare, o circular economy, in generale si fa riferimento sia ad una visione della produzione e del consumo di beni e servizi alternativa rispetto al modello lineare, sia al ruolo della diversità come caratteristica imprescindibile dei sistemi resilienti e produttivi.
Il nostro sistema tradizionale di produzione, cosiddetto lineare, si trova infatti oggi a fronteggiare la sfida dell’esaurimento delle risorse parallelamente a un crescente incremento della domanda. Recenti studi stimano l’aumento dei prezzi delle commodity dal 2002 al 2010 pari al 150% e l’accesso al mercato entro il 2030 di circa tre miliardi di nuovi consumatori (Rapporto GEO, 2015)
Nel processo lineare, take-make-dispose, si va dalle materie prime vergini alla fine vita di un prodotto (ovvero discarica) attraverso i processi intermedi di trasformazione e consumo. La limitata disponibilità di risorse e i flussi aperti di energia, materia, acqua etc. che accompagnano il processo, così come i flussi in uscita di inquinanti, di gas serra, di acque reflue, di rifiuti, di scarti di lavorazione etc. sono quindi i principali ostacoli che si trova a fronteggiare oggi la produzione lineare.
In questo contesto si fa sempre più forte l’esigenza di trovare modelli di business e di produzione alternativi che disgiungano la crescita dal consumo di risorse naturali. L’idea di economia circolare nasce in questa prospettiva, con l’idea di sostituire il concetto di fine vita di un prodotto con quello di ricostruzione (restoration), ovvero un modello in grado di potersi rigenerare da solo, in contrapposizione al sistema lineare tradizionale.
Così come approfondito nel recente saggio Waste to Wealth: The Circular Economy Advantage di Peter Lacy e Jakob Rutqvist, appena pubblicato per l’Italia, l’economia circolare permette lo sviluppo economico entro i limiti delle risorse naturali e consente alle aziende di innovare facendo ' di più con meno '.
La definizione riconosciuta come più autorevole per questo nuovo modello produttivo, è quella della Fondazione Ellen MacArthur (EMF) di “economia industriale che è concettualmente rigenerativa e riproduce la natura nel migliorare e ottimizzare in modo attivo i sistemi mediante i quali opera” (EMF, 2012, “Towards the Circular Economy”). Sempre la EMF attribuisce all’economia circolare due principali flussi di materiale: biologico e tecnico, come sintetizzato nella Figura 1 (Ellen MacArthur Foundation).
Il flusso biologico in cui i materiali sono progettati per tornare in sicurezza nella biosfera; e il tecnico, in cui i materiali circolano mantenendosi in grado di rientrare nei processi con un alto livello di qualità e senza impattare la biosfera.
Il Green Economy Observatory (GEO) dello IEFE Bocconi, ha svolto una ricerca approfondita sulla circular economy che ne inquadra anche le cause di inefficienze che spesso si riscontrano in questo sistema, i “leakeges” le cosiddette fuoriuscite, punti del ciclo in cui non vi è chiusura. Queste fuoriuscite possono dovute ad una mancata valorizzazione degli scarti derivante da inerzie del sistema attribuibili a fattori culturali, istituzionali, tecnologici, di mercato ecc. e si possono superare attraverso elementi interni strategici per stimolare la chiusura di ogni fase del processo. Il report prosegue quindi individuando un esempio di best practice aziendali per ogni fase di un processo circolare: Approvvigionamento, Design, Produzione, Distribuzione, Consumo, Raccolta e Riciclo.
Chi di voi si sente parte di questo nuovo approccio alla produzione?
Quali best practice potete suggerirci?
Ultimi 2 contributi di 2 total
Paolo Broglio
17/05/2016 at 10:03
Rimango sempre stupefatto delle " banalità" che il Sistema Teorico Accademico riesce a focalizzare dando loro grandiosità e nobiltà a mezzo acronimi perlopiù scritti in inglese. Anche l'Economia Circolare non fa eccezione alla Regola. I ricercatori dello IEFE Bocconi hanno "scoperto " che non sprecare sarebbe meglio che sprecare e, ancora, sarebbe necessario chiudere i cicli facendo tornare alla Natura quello che è rinaturalizzabile e ai cicli produttivi ciò che è ancora recuperabile.
Tutto ciò è a conoscenza ( da lungo tempo ) di chiunque si occupi di industria / ambiente / energia imprenditori compresi i quali tendono, giustamente, a massimizzare il profitto sprecando il meno possibile. Ma l'Economia Circolare non è molto popolare e non " parte ". Come mai ? Ho avuto occasione varie volte negli ultimi 25 anni di citare alcuni distretti virtuosi pensati apposta per avere, a cascata, la massima resa. Uno utilizza i " rifiuti" dell'altro " fino al riutilizzo quasi completo ( vedi articolo del 2003 allegato ) ; purtroppo la bioeconomia ecosostenibile trova difficoltà logistiche, burocratiche e interessi economici contrari alla sua diffusione. I ricercatori della Bocconi dovrebbero focalizzarsi su questi aspetti ed individuare modalità pratiche ( da suggerire al Governo, alle Regioni e agli Imprenditori ) per superare gli ostacoli e rendere la strada della ecobioeconomia agevole.
In Italia realizzare quello che è stato fatto a Kalundborg ( 20 anni fa in Danimarca ) sarebbe impossibile.
Come contributo alla discussione vorrei allegare un vecchio articolo che, ritengo, potrà funzionare da stimolo.
Paolo Broglio
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vincenzo de vera
17/05/2016 at 12:07
Non é così sconosciuta, se ne parla molto e si applica abbastanza in nord Europa (oltre Kalundborg) ma anche in Italia (in Puglia ad es); vero quel che sostiene Paolo Broglio che in Italia vi sono freni burocratici/di potere ma anche e soprattutto culturali e di mentalità: basta guardare all cugina "sharing economy" (una legge é in cantiere ma già pare più orientata a mettere paletti e controlli piuttosto che a favorirne lo sviluppo) per rendersi conto quanto partecipazione e lotta agli sprechi siano ancora concetti di modesta diffusione, se non a parole, nel nostro Paese.