Non abbiamo bisogno di tecnofobi
Antonio Santangelo
Published on 18/09/2017
Last update: 17/07/2019 at 11:48
Nel corso del Forum Ambrosetti, le scorse settimane, è stata presentata una ricerca che attualizza i dati di Osborne e Frey (The future of Employment), relativa all’impatto dell’innovazione sul mercato del lavoro. La ricerca è del 2013 e si riferisce al mercato anglosassone, ma lo studio Ambrosetti ne acquisisce le premesse tout court. Il documento valuta l’impatto sul mercato del lavoro italiano in 3,2 Mni di posti persi, pari a circa il 15% degli occupati, nei prossimi 15 anni.
A rischio sono i giovani, quelli meno preparati, ma anche tra i professionisti c’è chi è più in pericolo: tecnici matematici, commercialisti e analisti del credito.
Le ragioni alla base delle previsioni sono evidenti e sono state spesso richiamate dalla discussione dei mesi scorsi, animata da personaggi tutt’altro che luddisti, del calibro di Elon Tusk, Ceo di Tesla, Bill Gates e il fisico premio Nobel Stephen Hawking. Più che opporsi all’automazione, le riflessioni denunciano i rischi che gli sviluppi dell’intelligenza artificiale possano consegnare il potere alle macchine a scapito dell’umanità. Gates ha invece proposto una tassa sui robot per contrastarne l’eccessiva diffusione.
In questo contesto il documento Ambrosetti, e soprattutto la presentazione che ne fanno i media nazionali, rischia di creare confusione, nel migliore dei casi, e gravi danni in un Paese che abbonda di tecnofobi, analfabeti digitali, propagandisti della decrescita felice e epigoni dell’assistenzialismo di cittadinanza. Peraltro, riporta la lancetta indietro di più di trent’anni, ai tempi della rivoluzione informatica: l’avvento dei personal computer avrebbe distrutto milioni di posti di lavoro, secondo i tecnofobi dell’epoca.
Franco Bentivogli, segretario Fim-Cisl, ricorda che i robot sono tra noi da almeno trent’anni, appunto, e sposta la discussione su elementi più fattuali dell’automazione si o no: dall’elenco delle mansioni in pericolo alla necessità di pensare nuove organizzazioni del lavoro, individuare nuove architetture industriali e sociali, ragionare sugli ecosistemi che creano opportunità. Allargare cioè lo sguardo dai processi così come sono oggi, settore per settore, all’intero ambito sociale e alle sue trasformazioni. Prendendo atto di iniziative che già oggi indicano quali sono le linee guida per innescare processi di sviluppo virtuosi.
Industria 4.0, in primis, tentativo di riprendere le politiche industriali a supporto dello sviluppo, che registra un forte successo e risposte positive da parte delle imprese. Il ministro Calenda sottolinea come l’impeto e la velocità con cui le tecnologie si sono sviluppate, e hanno pervaso molti ambiti dell’economia e della società, non è stato seguito da una equivalente capacità di riflessione e trasformazione delle strutture sociali e di governo, nell’economia e nella politica. E’ un fenomeno molto simile alla disconnessione tra economia e politiche di governo dei fenomeni in conseguenza della globalizzazione.
Emergono allora le discrasie fra processi reali e organizzazione sociale: Una ricerca di Confartigianato, pubblicata dal Corriere Comunicazioni, segnala che le imprese italiane prevedono 117.560 assunzioni di persone con titolo di studio legato all'innovazione. Tutto ciò grazie agli incentivi di Industria 4.0. I profili più richiesti:
- 32.570 diplomati in meccanica, meccatronica, energia
- 13.530 diplomati in elettronica ed elettrotecnica
- 34.000 con qualifica o diploma professionale a 4 anni in meccanica
- 9.840 ingegneri elettronici
- 8.550 ingegneri industriali
La confederazione segnala che le imprese fanno fatica a trovare i profili richiesti. In particolare mancano 14.430 tecnici in campo informatico, ingegneristico e della produzione. I laureati in ingegneria e discipline scientifiche sono in Italia il 12,5% contro il 17,6% della media europea
Dunque, c’è un problema di rapporto tra formazione e mercato del lavoro. E non è certo un buon segnale la sentenza del TAR del Lazio che si oppone al numero chiuso nelle facoltà umanistiche alla Statale di Milano: non perché ci siano troppi laureati in filosofia, ma perché si ignora il rapporto tra risorse e qualità dell’insegnamento. Oltre a riorientare le scelte degli studenti verso professioni più accessibili vanno ripensati processi di apprendimento e organizzazione di scuola e università.
Infine, basta osservare processi molto vicini a noi: la Lombardia sta trainando la ripresa del Paese, e qui si investe molto sulla ricerca e l’innovazione: la Regione ha recentemente triplicato l’investimento da 40 a 106 Mni € per la qualità dei progetti presentati in risposta a un suo bando, la maggioranza in ambito biotech e automazione industriale. E la Lombardia, come del resto gli Usa, è in testa nell’utilizzo delle nuove tecnologie e presenta i livelli di disoccupazione più bassi a livello nazionale, a smentire tecnofobi e catastrofisti.
il Comune di Milano, attraverso le iniziative dell’Assessorato alle Politiche del lavoro e Attività produttive sta accompagnando la trasformazione dell’economia urbana puntando su processi e protagonisti dell’economia digitale, come racconta in maniera intelligente Laura Traldi sul suo blog in Milano 4.0. L’innovazione passa anche attraverso la capacità delle amministrazioni di ascoltare e coinvolgere i cittadini, creando spazi per il loro protagonismo.
Dunque il problema non è difendersi dalle tecnologie, ma ripensare processi di formazione e produzione di merci e servizi come parte della costruzione di un ecosistema che è in grado di inserirsi nei grandi processi di trasformazione a livello globale. Dove questo avviene, come a Milano e in Lombardia, i segnali sono incoraggianti. Rafforziamoli e diffondiamoli a livello nazionale.