30 luglio 2020
Per l’imprenditrice “il 50% delle aziende non investe su temi urgenti. Il futuro? I nuovi materiali”
La strada per la ripresa? Va imboccata “oggi, non domani” e passa dall’open innovation.
Questo il ‘monito’ di Lucia Chierchia, Managing Partner della bolognese GELLIFY, piattaforma che porta l’innovazione nelle aziende tradizionali mettendole in connessione con startup tecnologiche B2B attive su Fintech, Big Data, Artificial Intelligence, Cybersecurity.
Una realtà che ha appena lanciato Gellify Iberia (grazie a un’acquisizione) e aperto una sede per il Middle East a Dubai.
Laurea in Ingegneria Meccanica al Politecnico di Milano (dove ora è membro dell’Advisory Board), Chierchia sceglie l’Executive Master in Technologies & Innovation Management alla Bologna Business School, poi il mondo aziendale e da qui quello delle startup e dell’innovazione, con un proprio percorso imprenditoriale.
Lucia Chierchia è Membro della Giuria di HORIZON SME-Instrument.
Anzitutto come hanno vissuto questo periodo di lockdown le aziende con cui siete in contatto?
“Ovviamente dobbiamo distinguere tra aziende consolidate e startup. Per quel che riguarda le prime, il mondo manifatturiero è certo quello che ne ha risentito di più, a livello di prospettive le aziende di questo settore sono ancora oggi le più impaurite. Sia che fatturino 500 milioni, sia che superino i 10 miliardi ancora adesso sono restie a fare investimenti innovativi, proprio perché non hanno chiaro quali potranno essere i ricavi nei prossimi sei mesi e da qui a un anno.
In altri settori la ripartenza c’è stata, ma con atteggiamenti diversi. Quello che stiamo vedendo è che questo periodo terribile ha dato come uno scossone a molti manager e imprenditori, ha fatto loro aprire gli occhi su temi che erano già sul tavolo non da oggi ma da anni, dei quali magari molti avevano visto il potenziale allocando anche risorse per rinnovare la propria azienda: in questi casi, abbiamo visto una vera accelerazione sull’innovazione.
Di contro, tra chi non aveva ancora colto le potenzialità dell’innovazione - non parlo quindi solo della digitalizzazione - solo alcuni si sono rimboccati le maniche e - magari anche senza aver capito in che direzione andare - si stanno muovendo. Molti altri purtroppo sono ancora in attesa: molti manager sono ancora restii a investire, su temi che pure sono sia urgenti sia importanti.
Prendiamo la Supply Chain. Le aziende hanno focalizzato gli ultimi dieci anni nell’ottimizzazione della Supply Chain, per minimizzare i costi, ridurre le scorte e massimizzare l’utilizzo degli asset. Pertanto hanno eliminato i buffer e quindi la flessibilità: l’ecosistema ha perso la capacità di ammortizzare le perturbazioni e quindi di reagire a un evento come il lockdown e la mutazione dei mercati causati dal COVID. Fortunatamente le tecnologie emergenti possono aumentare la capacità delle aziende di resistere a tali shock. Facendo leva su Internet of Things, Intelligenza Artificiale e 5G, possiamo anticipare e rispondere alle future sfide.
Il modello tradizionale di Supply Chain lineare si trasforma in Digital Supply Networks,
dove i silos funzionali lasciamo spazio a un unico ecosistema integrato per abilitare visibilità e tracciabilità della filiera, modelli collaborativi con fornitori differenziati e agilità di esecuzione”.
Di che percentuale di aziende ‘in attesa’ parliamo?
“A prescindere dalla dimensione, dire che almeno il 50% delle aziende - e voglio essere ottimista - non ha reagito, non ha imparato la lezione. E questo è grave. Diverso il discorso sulle startup, l’altro mondo con il quale GELLIFY si interfaccia. L’emergenza ha fatto emergere che molte startup hanno già pronte soluzioni anti Covid, che potremmo chiamare più in generale anti fragility perché rendono le aziende più robuste quando devono affrontare eventi esterni mediante cambiamenti interni. Per tornare ad esempio al tema Supply Chain, molte delle soluzioni di ottimizzazione mediante tecnologie digitali vengono proprio dalle startup.
Con questo voglio dire che molti dei temi che erano sul tavolo e che ora diventano urgentissimi sono spesso affrontabili e risolvibili grazie alle startup. Un punto che spero venga colto: alle aziende basta prendere queste soluzioni e incorporarle, e se c’è una barriera non è tecnologica né di business quanto di tipo culturale. Certo, è comunque una barriera difficile da superare”.
Una curiosità: i manager di alto livello restii al cambiamento lo sono magari per motivi anagrafici?
“Bellissima domanda. Perché mi permette di chiarire che no, l’età non c’entra affatto. In generale vedo che la propensione a innovare - se stessi, come la propria azienda -
prescinde del tutto dall’anagrafe. Conosco imprenditori non più giovani che sono innovatori all’ennesima potenza, e che magari incontrano resistenza tra chi ha molti meno anni di loro. È una questione di DNA e cultura”.
Il suo campo è quello dell’open innovation: come la definirebbe e che ruolo può giocare in questa fase di ripresa?
“In effetti mi occupo di open innovation dal 2011, quando in Italia ancora non se ne parlava molto. Per me fare open innovation significa costruire nuovi modelli di business, facendo leva sulla sinergia tra aziende consolidate con un business da proteggere e far evolvere e realtà neonate o piccole imprese. Non si può confonderla quindi con le call for ideas, che rappresentano invece uno strumento per arrivare all’obiettivo finale, ovvero un contratto tra startup e azienda consolidata.
In questo rapporto, allora, la startup può rappresentare la soluzione a un problema di innovazione dell’azienda, ma è anche portatrice di un cambiamento a livello culturale e di leadership. E se il primo punto è bene accolto, non è detto che lo sia altrettanto il secondo. Io credo molto nella contaminazione tra questi due mondi, vedo però ancora molta chiusura, da entrambe le parti: anche gli startupper a volte non colgono il valore del confronto”.
Quanto è diffusa l’open innovation in Italia e come sostenerla?
“I casi più riusciti che conosco dipendono molto dall’iniziativa dei singoli, startupper o manager aziendali, che ci hanno creduto: in questo noi italiani siamo molto propositivi. Dispiace però vedere che sia tutto frutto di uno sforzo individuale e così grande. In generale, credo che debbano cambiare i meccanismi decisionali delle aziende in tema di innovazione, questo non solo in Italia. Per quel che riguarda in particolare il nostro Paese, gli incentivi per le startup possono fare la differenza se legati a reali progetti innovativi.
Vi sono diverse iniziative regionali che rappresentano un modello di open innovation: Lombardia ed Emilia-Romagna sono esempi virtuosi e modelli di riferimento persino per gli altri Paesi.
È anche vero che negli ultimi 5-6 ci sono stati dei cambiamenti: vedo più fermento, più voglia di cambiare, di mettersi in discussione a tutti i livelli e in tutti gli ecosistemi, quindi sono ottimista. Ora questa energia va canalizzata e non dispersa”.
GELLIFY investe in tecnologie digitali: su quali altre tecnologie pensa dovrebbe puntare l’Italia per una crescita economica stabile? E su quali tecnologie puntare tra 10 anni?
“GELLIFY investe in Big Data, Advanced Analytics, Artificial Intelligence, Cybersecurity e Blockchain. Oggi la sfida delle aziende non è tanto digital, ma phygital, ossia riguarda l’integrazione di uno strato digitale in un contesto che spesso digitale non nasce.
La call lanciata dal Fablab di Temporelli per la produzione di mascherine durante l’emergenza sanitaria è un chiaro esempio di come una piattaforma digitale possa amplificare il potenziale della stampa 3D, e abilitare nuovi modelli collaborativi: è stato un esempio di open innovation.
Mi sembra insomma che oggi tutte le potenzialità su cui puntare siano già contenute nelle diverse tecnologie 4.0.
Con uno sguardo più a lungo termine, direi che tra dieci anni non parleremo più di digitale perché sarà implicito, sarà parte integrante dei nostri modelli operativi. Quello che potrà cambiare le regole del gioco sarà l’area dei nuovi materiali: un settore in cui il grafene, ad esempio, ha aperto la strada a nuovi filoni di sviluppo e applicativi.
A questo deve guardare l’Italia, forte del suo substrato di aziende che rappresentano un’eccellenza in domini tecnologici emergenti: imprese piccole, medie, grandi e giganti grazie al digitale possono formare una nuova filiera peri diventare una ‘macchina per l’innovazione’”.
Ecco: come si digitalizzano queste imprese, se ancora non l’hanno fatto?
“L’ostacolo principale rimane la resistenza al cambiamento. La paura sperimentata nei mesi scorsi dovrebbe essere uno stimolo sufficiente a superare vecchie barriere mentali. Chi ha intrapreso azioni di innovazione riuscirà a stare sul mercato in modo diverso e farà del bene al Paese; chi invece non si è reinventato, forse scomparirà: ricordo bene la crisi del 2009 e come molte aziende in apparenza solide siano andate in bancarotta perché incapaci di reinventarsi, mentre altre sono riuscite a diventare leader di mercato.
Ora è fondamentale rimettersi in discussione e - se non si è in grado di farcela da soli - alzare la mano per chiedere un aiuto. Oggi, non domani”.
Veniamo allo Smart Working imposto dalla pandemia: che evoluzioni vede per il lavoro da remoto? Quali altri cambiamenti potrebbero diventare aspetti stabili della nostra nuova normalità?
“Mi vengono in mente i tanti imprenditori e manager che avrebbero voluto avviarlo già da tempo: loro certo non torneranno indietro, ma lavoreranno per attivare quegli strumenti che abilitano un vero Smart Working (e non un telelavoro).
Purtroppo sento anche di molte aziende che hanno fatto rientrare il proprio personale solo per poterlo avere ‘sotto controllo’, anche se non necessario per l’esecuzione delle attività e anche se costretti a lavorare in condizioni non certo semplici: ciò è sintomo di un problema a monte, nella mancanza di fiducia nei propri collaboratori, un elemento che non dovrebbe mancare in un team aziendale.
Più in generale, mi ha colpito come, secondo la quasi totalità delle persone con cui ho parlato, i mesi scorsi siano stati un’occasione per riflettere sui valori della propria vita: ci siamo trovati a contatto con le persone per noi davvero importanti, abbiamo lavorato in modo diverso e questo ci ha permesso di vivere in modo diverso. In modo migliore, molto spesso, soprattutto per chi magari tornava a casa solo nel fine settimana.
In definitiva: anche le realtà più grandi, operanti su scala globale, hanno forse capito che non è necessario stare sempre in ufficio o sempre in giro dai clienti per lavorare con buoni risultati. Spero che da questo non si torni indietro”.
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