Digitalizzazione, re-training e re-skilling: i rischi per le imprese italiane
Maurizio Mesenzani
Pubblicato il 29/01/2018
Ultimo aggiornamento: 17/07/2019 alle 09:45
Parto da alcuni studi pubblicati nei mesi scorsi dai vari analisti mondiali, secondo cui il 14% della forza lavoro mondiale nei prossimi anni dovrà affrontare un cambiamento radicale, dovuto a digitalizzazione, automazione e intelligenza artificiale (Jobs lost, job gained: Workforce transitions in a time of automation – McKinsey, dicembre 2017). Da un lato le aziende dovranno quindi cambiare le loro persone, dall’altro dovranno formarle e ricostituire il bacino delle proprie competenze, ridefinendo l’assetto di conoscenze tecnico-specialistiche necessarie nei loro business.
Fino a qualche tempo fa si credeva che questo fosse solo un problema per il mondo dei “servizi”, in realtà la digital transformation inizia anche a cambiare radicalmente l’industria (gli studi McKinsey parlano del 43% di digitalizzazione dei processi di supply chain ad esempio): IoT, Robotica, Intelligenza Artificiale, Cloud Manufacturing, Blockchain sono solo alcune delle buzzword che “taggano” i cambiamenti in corso nei contesti industriali.
Le survey parlano di un cambiamento che tocca un quarto del personale tra oggi e i prossimi cinque anni. In questo scenario le persone vanno o sostituite o riportate in formazione (aula, training on the job, elearning, laboratori, ecc).
Ma chi può permetterselo? Forse le grandi corporation, che hanno risorse da investire, meno le piccole e le medie, che già faticano a gestire il business ongoing e che non riescono a mettere persone in formazione senza bloccare la macchina produttiva o commerciale.
Anche le grandi corporation però mostrano dei potenziali rischi per il nostro paese: spesso i loro centri direzionali sono fuori dall’Italia, esattamente come le piccole e le medie di successo, che sono sempre più possedute e/o controllate da fondi internazionali.Quando si tratta di scelte e investimenti in ambito “digital”, sempre più di frequente, sia nelle imprese grandi sia nelle PMI internazionali, ci sentiamo dire: “queste decisioni sono prese all’estero”, ovvero là dove risiedono i centri di potere e i centri di competenza sui temi legati alla “digital transformation”.
Senza aggiornare rapidamente persone e conoscenze presenti in Italia, abbiamo quindi il rischio concreto di perdere nei prossimi cinque-dieci anni le minime competenze critiche per poter gestire processi e operations, oltre ad avere perso la proprietà e il controllo delle aziende presenti sul nostro territorio e dei loro processi fondamentali. Sempre di più alle persone operanti in Italia in ambito digital sono lasciati task esecutivi, attività routinarie che richiedono territorialità e compiti "human intensive", mentre dall’estero sono calate le strategie digitali, la scelta degli strumenti, le metodologie operative, il ridisegno dei processi chiave alla luce della digitalizzazione.
Ciò comporta anche rischi di perdita di posti di lavoro qualificati e conseguente riduzione dei livelli retributivi medi rispetto all'estero.
Quali sono le contromisure adottate? Quali si possono adottare? Come possono le aziende italiane aggregarsi e fare fronte comune davanti a questi rischi? Qual è il ruolo delle istituzioni, delle scuole e degli enti accademici? Come trasformare questi rischi in opportunità di crescita e sviluppo per le imprese italiane?
Altre fonti:
Illanes, Lund, Mourshed, Rutherford, Tyreman, “Retraining and reskilling workers in the age of automation”, McKinsey Quarterly, Gennaio 2018
Gezging, Huang, Samal, Silva, “Digital Transformation: Raising supply-chain performance to new levels”, McKinsey Quarterly, Novembre 2017