Il crowd working, nuova spallata al lavoro tradizionale
Elga Apostoli
Pubblicato il 15/02/2018
Ultimo aggiornamento: 25/06/2019 alle 18:34
Il lavoro sta cambiando: automazione, flessibilità, smart working sono solo alcuni dei temi che ogni giorno vengono citati nella descrizione di un cambiamento che appare tanto pervasivo quanto irreversibile.
Finora questi cambiamenti sono stati messi in relazione alle forme tradizionali di lavoro e per la contrattualizzazione classica, subordinata, full time e a tempo indeterminato. Talvolta anche con una cetto velato e implicito biasimo, a sottolineare l’eccessiva rigidità e anacronistica mancanza di flessibilità di un certo modo di intendere il lavoro.
Ora la trasformazione, ovviamente, comincia a invadere anche altre domini del lavoro e, in particolare, quello delle professioni.
Ce lo racconta Cristiana Gamba in un suo articolo di qualche giorno fa, in cui presenta una serie di servizi per il cosiddetto “crowd working” ovvero modalità di gestione della domanda e offerta di prestazioni professionali, in piena “salsa” sharing-economy.
I modelli di servizio sono diversi ma fondamentalmente si basa di piattaforme digitali in cui i professionisti si offrono per erogare prestazioni specifiche, segmentate e puntiformi che le aziende possono acquistare per esigenze specifiche, senza passare da intermediari.
La diversa logica delle piattaforme può portare a fenomeni particolari come vere e proprie aste oppure sistemi di reputation (che rischiano di essere pericolosi se governati da algoritmi secondo i modelli dei social network generalisti).
Quello che emerge è certamente un ulteriore deregulation del lavoro, una sua progressiva atomizzazione cui dovrebbe corrispondere un sistema di welfare adeguato, che stiamo però tutti attendendo, almeno come modelli propositivi.
Insomma il lavoro di tutti si va trasformando mentre nessuno sembra sapere come gestire il suo futuro.