Futuri possibili
Antonio Santangelo
Pubblicato il 11/05/2018
Ultimo aggiornamento: 05/08/2019 alle 21:17
Non c’è momento migliore per interrogarsi sul futuro di una fase di transizione. E non c’è dubbio che l’attuale lo sia. Non solo, pensando al Paese, per l’incertezza delle scelte presenti, anche guardando fuori dai confini, nell’immediato alla crisi siriana con Iran annesso, e a breve all’apertura della negoziazione tra i 28 del nuovo budget per la Programmazione 2021-2027.
Leggere “I nostri futuri possibili” nella collana HBR Italia di Strategiqs Edizioni, non aiuta a trovare risposte nel breve, ma delinea i connotati dei cambiamenti profondi in atto, sospinti da scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche incalzanti. Questi connotati prefigurano un contesto il cui senso sarà profondamente influenzato dalle decisioni che vanno prese oggi, da subito.
Introducendo il contenuto del libro, gli scenari a medio e lungo termine per tecnologia, economia, finanza e imprese, Andrea Granelli chiarisce la finalità del testo: “mettere in luce i punti di svolta che danno il via alle discontinuità, le competenze necessarie per fronteggiare i nuovi contesti, le trasformazioni in atto di valori, credenze e pregiudizi”.
Quindi il libro, attraverso il contributo di teste pensanti, intende prefigurare il futuro, perché il pensarlo – più che prevederlo – aiuta a focalizzare le relazioni a cercare implicazioni possibili, a far emergere ipotesi sorprendenti che vale la pena di tenere sotto controllo.
Perciò è senz’altro utile leggere i contributi della squadra reclutata da Enrico Sassoon, per trarre indicazioni sui fatti e sulle riflessioni che contribuiscono ad attrezzare uno scenario in divenire per poter fare le scelte strategiche giuste.
Le sollecitazioni sono molte, e tutte meritevoli di un approfondimento. Mi limito a segnalare alcuni temi che sono particolarmente sensibili per noi e su cui è utile riflettere in un contesto come Open Innovation.
Elio Catania, nel suo intervento, affronta il tema di Impresa 4.0, ricordando innanzitutto il ritardo del Paese negli investimenti in tecnologie: 25 miliardi all’anno in meno dei partner negli ultimi 15 anni, fa 300 Mdi. Si evidenzia una carenza di leadership, prima di tutto, quindi trasversale a pubblico e privato. Nonostante le eccellenze produttive e i progressi fatti in questi due anni, solo il 10% delle Pmi ha un livello digitale accettabile, quindi occorre proseguire nello sforzo.
La carenza di leadership si misura anche nel ritardo sulla creazione di competenze adeguate, osserva Bruno Lamborghini, grave se raffrontato alla necessità di trasformare le strutture aziendali in ecosistemi ad ampia circolarità che massimizzino la collaborazione attiva degli addetti e dei collaboratori. L’impresa si configura come una piattaforma aperta all’esterno, i cui componenti devono adattarsi ad un apprendimento continuo on the job e vedere la tecnologia come accesso a una sorta di “umanità aumentata”. La nostra capacità di apprendimento è ancora troppo lenta rispetto allo sviluppo delle tecnologie, quindi paghiamo in carenza di competenze, specie nell’analisi e gestione dei big data.
A completamento ideale del quadro Umberto Bertelé analizza l’impatto dell’innovazione sui modelli di business. Impatto variegato che ha creato nuovi mercati, nuove modalità di fruizione, nuove abitudini di acquisto. Molto dettagliata ed esaustiva la casistica trattata da Bertelé. Mi limito a indicare due temi strategici, che sono stati anche oggetto di un recentissimo seminario di The Ruling Companies:
- -la rete è stata spesso celebrata per a sua capacità di disintermediazione, letta come semplificazione del mercato; piuttosto si può parlare di re-intermediazione di soggetti più forti e a volte in regime di monopolio (Andrea Granelli)
- -cresce la discussione sulla necessità di porre delle regole nel digitale, è importante regolare i comportamenti e non la tecnologia (Guido Scorza)
I temi trattati sono molto più ampi di questi, è solo un assaggio.